La più
recente produzione di Giuseppe D'Auria offre una pittura affascinante
e difficile, come tutte le cose elementari che cercano la sintesi
all'origine, al principio, alle sogie della formazione, con
tutte le implicazioni delle trasparenze che sono la prerogativa
del sorgere della vita. Si tratta quindi di un approdo lungo
la cui rotta si trovano i capisaldi del sapere, la dimestichezza
con le scienze umane e quelle filosofiche, una non comune sensibilità
che «scopre» nella materia pittorica l'evento cercato
con la devozione del pellegrino e con la forte poesia di quell'ideale
umano che riconosce nella natura e nei viventi, quei miracoli
di spiritualità e d'amore che sono semi di sogni, fantasia,
riflessi versicolori di verità.
D'Auria in cinque lustri di vita artistica ed espositiva ha
fatto sempre pittura di contenuti. Ha conservato la prerogativa
dell'essenzialità, la pulizia del segno, la dose del
gesto e la intuizione del colore espresso nella ricerca materica
come nella dissolvenza di levità sospese su orizzonti
impalpabili.
Ha convogliato tante esperienze e ricerche nell'originalità
del nuovo campo d'indagine che dall'informe coglie la duplicità
speculare dell'evento tempo-spazio. Non è facile far
pittura sospendendo l'immagine alle soglie del suo configurarsi,
vaporandola in liquidi colori che hanno lenti moti esterni e
turbini interiori, che fanno pensare al fenomeno ispirato al
suo determinarsi; l'arte deve inventarsi una magia d'affascino
che nel giro d'un caledoscopio ispiri l'iride d'una bolla, lieve
più d'un soffio, ad accarezzare albe e tramonti indistinti
splendenti con la loro eternità sulle tensioni di radici,
muscoli e nervi, corpi come paesaggi, ove le mani tenaci di
sensi esplorano libere emozioni e colori compresenti, fusi nel
cosmo primordiale. Talvolta si avverte il senso di un cromatismo
evocativo, della drammaticità interiore, resa fluida
e impalpabile dalla sapida ricerca che accortamente evita lo
spasimo espressivo e il virtuosisvto impressionistico e ncll'eticità
dell'equilibrio coglie una sintesi ambita: la più organica
tra natura, istinto e ragione.
Le opere di D'Auria hanno quindi il fascino della regola, il
senso dell'insondabile, le suggestioni magiche ed imprevedibili
di terre luminescenti e frantumi sospesi, allusivi, metaforici,
invenzioni scoperte sotto il colore esteso e distrutto per orchestrare,
con l'essenza di ciò che conta, proprio come un ikebana,
la stoda universale d'un sentimento, la malinconia che sorride
chiaroveggente, la vita che sorge a perdersi e rinnovarsi nel
più ardente desiderio di giovinezza, di stagioni attonite
ai rovesci di stagioni, di immersioni nella solarità
di un evento che coincide con la verità e la sigla nella
fisicità spirituale d'un meriggio gioioso.
Angelo Calabrese
1986