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«In principio
il cielo non aveva nome»
Il primo mattino del mondo, rosato da un'aurora che teneramente
avvolgeva rocce non del tutto solidificate, con un cielo in fieri
(ma esso non aveva nome), dovette
essere proprio così: come l'istinto e la sensibilità
pittorica di Beppe D'Auria lo raffigurano.
L'eterno, probabilmente, esclamò compiaciuto: «Tutto
ciò è buono e bello!»; e, forte di questo
ragguardevole risultato iniziale, si accinse al proseguimento
dell'opera.
Nel magma cedevole e malleabile, apparvero i primi sperimentali
tentativi plastici di ricerca d'umane anatomie, da attuare in
successivi programmi di lavoro, per poi renderle decisive funzionali
o, quanto più possibile, perfette. Jod, l'eterno principio
maschile, si fuse con Evé, l'eterno principio femminile,
configurando Jehvé (Jahvé) o la perfezione e la
vita trasformandosi più tardi, in Jèova (Gèova)
e, nel periodo classico, in Giove, noùmeno e fenomeno al
tempo stesso.
Ma l'estrema delicatezza di siffatti paesaggi primordiali sognati
dal D'Auria,
colpisce, e stimola pensieri profondi, inacciuffabili perché
diluiti nelle acque longeve dell'inesprimibile.
Sono meditazioni freudiane trasferite sulla tela, con una ricchezza
di colori e di forme evanisenti, del pensiero che si fa materia:
il passato inesistente, il futuro ancora in germe.
La virtù prevalente dell'Artista rimane tuttavia quella
di aver saputo cogliere, con
efficace puntualità, i momenti problematici del divenire
(che forse psicologicamente gli appartengono). E di aver reso
più vicino a noi, uomini di scarse dimensioni, il conflitto
interiore della Mente Suprema che, al momento, si dibatteva nell'eterno
dramma della creazione.
Mario
Guaraldi 1986 |
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